L’importanza dell’engagement: il ‘disimpegno’ dei dipendenti costa il 9% del PIL globale
Secondo l’ultimo Rapporto Gallup sullo ‘Stato globale del mondo del lavoro’ (‘State of the global workplace 2023 – The voice of the world’s employees’), uno dei principali riferimenti del settore, l’atteggiamento della netta maggioranza dei dipendenti (59%) è improntato al ‘quiet quitting’, cioè al disimpegno passivo. Non si tratta di una passività ad effetto neutro: nella stessa ricerca si stima infatti che un basso coinvolgimento dei collaboratori costi annualmente all’economia 8,8 trilioni di dollari, il 9% del PIL globale. Al contempo, le persone disimpegnate sanno perfettamente che cosa vorrebbero dal posto di lavoro: il 41% desidererebbe più engagement e partecipazione alla cultura aziendale, il 28 % un miglioramento degli aspetti economici, il 16% maggiore attenzione al wellbeing.
Nel mondo post-Covid si conferma l’aspirazione ad un lavoro migliore
Inoltre, riaffermando quanto attestato dalle analisi precedenti sul fenomeno delle ‘Grandi Dimissioni’ volontarie, e nonostante aumentino le voci che preconizzano un imminente rallentamento dell’economia mondiale, la metà dei dipendenti pensa che la ripresa del mondo post-Covid costituisca una buona occasione per cambiare lavoro. Non a caso, la stessa percentuale di intervistati (51%) dichiara di avere intenzione di lasciare il proprio posto per una situazione migliore. Una aspirazione ad un maggiore benessere individuale che trova ulteriori riscontri dato che, nonostante il mondo si sia ripreso dagli effetti peggiori della pandemia, per il secondo anno consecutivo il livello di stress nei lavoratori rimane a livelli da record (il 44% del totale).
Il 30% dei lavoratori italiani prova intensa sofferenza sul posto di lavoro
In un quadro di generale insoddisfazione su scala planetaria un posto di primo piano lo assumono i lavoratori italiani, che appaiono i più infelici d’Europa: quasi il 30% prova un’intensa sofferenza sul posto di lavoro ed è scettico sulla possibilità di ribaltare la situazione. Certo è intuibile che una parte importante del problema sia di natura economica considerato che, secondo una recente analisi della fondazione indipendente Openpolis basata sui dati Ocse, l’Italia è l’unico Paese europeo in cui i salari medi reali sono diminuiti rispetto al 1990 (-2,90%). Una caratteristica certo non virtuosa e che colpisce soprattutto il livello di reddito delle fasce più giovani, da tempo sotto pressione se è vero che Bankitalia ha certificato che dal 2006 al 2016 la ricchezza degli under 35 si è ridotta di ben 7 volte, mentre la natalità nel 2022 ha fatto registrare un nuovo record negativo (-1,9%).
Il dato tragicamente basso dei lavoratori felici
Dunque, in primis vi è la ricerca di condizioni migliori di retribuzione e benefit economici. Ma non è solo questo. Nella ricerca ‘Vita, lavoro, felicità: disegnare una nuova relazione tra organizzazione e persone’, svolta su un campione nazionale di 800 lavoratori suddivisi tra colletti blu e bianchi e presentata lo scorso maggio dall’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, alla domanda sul proprio benessere psicologico, relazionale e fisico solo l’11% dei lavoratori dice di stare bene. Il 42% si è assentato almeno una volta dal lavoro nell’ultimo anno per motivi di malessere non di origine fisica, quale uno stato di ansia, ma anche problemi di natura sociale, come le relazioni interpersonali con capi, colleghi e collaboratori. Più in generale, a dichiararsi ‘felice’ oggi è uno sparuto 7% dei lavoratori, “un dato tragicamente basso” nella valutazione del responsabile scientifico dell’Osservatorio, Mariano Corso.
In Italia la Great Resignation continua
È chiaro che si tratta di elementi che influiscono su un fenomeno, quello delle ‘Grandi Dimissioni’ volontarie, che nel nostro Paese non pare arrestarsi: se prendiamo i dati degli ultimi 2 anni al momento disponibili, 2022 e 2021, le dimissioni hanno superato il numero record di 3 milioni (+22% nel 2022). Inoltre, si legge nel report dell’Osservatorio, nel nostro Paese negli ultimi 12 mesi il 46% dei lavoratori ha cambiato lavoro o ha manifestato l’intenzione di farlo a breve. Come attestato ormai da una vasta produzioni di studi e ricerche, si tratta di tendenze di lungo corso che accomunano le società più avanzate del mondo occidentale e che hanno subito una marcata accelerazione dall’esperienza pandemica, la quale ha favorito l’aspirazione al collocamento all’interno di contesti organizzativi più stimolanti e gratificanti.
Alla ricerca di un maggiore equilibrio di vita
Soprattutto è ravvisabile in modo sempre più marcato l’esigenza dei lavoratori di un più corretto bilanciamento tra vita professionale e vita privata. La pandemia, in particolare, ha fatto crescere in molti un senso di precarietà e attenzione al proprio ‘io’ che ha portato a vedere il lavoro non più come unica o principale priorità, e a rivendicare il diritto di avere tempo e spazio per poter vivere tutte le altre sfaccettature della vita quotidiana. Non solo. Gli anni del Covid hanno anche costituito uno stress-test di tale esigenza, poiché essa si è rivelata al contempo sempre più importante ma anche più difficile da garantire. Se in precedenza, complice l’esclusività dell’ufficio fisico, c’era infatti una chiara separazione di tempi e luoghi, l’innovazione tecnologica e le nuove modalità di lavoro che si sono diffuse durante la pandemia hanno fortemente messo in discussione l’equilibrio esistente e portato spesso a un ‘invasione’ del lavoro nella sfera privata.
Le 2 strategie difensive dei lavoratori: maggiore separazione versus più integrazione
Si tratta di cambiamenti che hanno creato disorientamento nelle persone le quali, spiega lo studio dell’Osservatorio del Politecnico, hanno reagito generando due ben distinte dinamiche di fondo che impattano gli equilibri vita-lavoro: la Work-Life Separation e la Work-Life Integration. Se la seconda riguarda chi ricerca nel proprio lavoro una componente significativa della propria soddisfazione personale ed è portato a gestire in maniera integrata questi due aspetti (43% dei lavoratori), la Work-Life Separation è invece la strategia adottata da chi trova la propria soddisfazione personale prevalentemente al di fuori del lavoro ed è portato a tenere separata la vita professionale da quella privata (57% dei lavoratori). “Nessuno di questi due è positivo o negativo in sé – si legge nella ricerca dell’Osservatorio - ma entrambi devono essere correttamente gestiti all’interno dei confini organizzativi per evitare l’insorgere di equilibri non sostenibili”.
Il pericolo delle 2 degenerazioni: stakanovismo versus apatia
E questo soprattutto perché si tratta di distinti approcci che possono facilmente condurre a degenerazioni che impattano sul benessere e la produttività dei lavoratori, e che certamente contribuiscono a spiegare il permanere del fenomeno delle Grandi Dimissioni: da una parte una Work-Life Integration non correttamente gestita e incanalata porta al Job Creeping, dall’altra una una Work-Life Separation non correttamente gestita conduce al Quiet Quitting. Il Job Creeping (lavoro strisciante) colpisce il 6% dei lavoratori italiani e definisce la difficoltà di staccare dal lavoro nelle modalità di home working, finendo sovente per sovrapporsi ai momenti che dovrebbero invece essere dedicati alla vita privata.
La conciliazione vita-lavoro tra le principali cause delle Grandi Dimissioni
Per contro le manifestazioni conclamate di Quiet Quitting riguardano il 12% dei lavoratori interpellati che, probabilmente non sentendosi presi in considerazione e valorizzati nei propri talenti, hanno deciso di ‘spegnersi’ limitando le energie da investire sul lavoro. I Quite Quitter manifestano atteggiamenti tendenti all’apatia: si impegnano giusto l’indispensabile, rifiutano la flessibilità di orario e non appaiono emotivamente coinvolti nelle attività aziendali. Entrambi questi fenomeni degenerativi vanno valutati con attenzione perché, come confermato dalla ricerca dell’Osservatorio, la conciliazione vita-lavoro è uno degli elementi su cui è più forte l’insoddisfazione dei dipendenti, finendo per costituire una delle principali cause delle dimissioni volontarie.
L’ ossimoro dell’Italia post-Covid: io fatico a trovare un nuovo lavoro, le aziende faticano a trovare dipendenti
D’altra parte, se è vero che sempre più nelle società contemporanee la capacità delle aziende di attrarre (e trattenere) i migliori talenti può fare la differenza tra successo e fallimento - tanto che oggi una delle maggiori preoccupazioni delle organizzazioni è di non perdere chi è già inserito al proprio interno -, va allora considerato che dimissioni e talent shortage sono fenomeni che si amplificano a vicenda. Da una parte i lavoratori fuggono alla ricerca di esperienze professionali migliori, dall’altra le aziende riscontrano penuria di talenti. Ciò rischia di sedimentare nel mercato del lavoro una situazione paradossale: chi ha lasciato il lavoro per cercare esperienze professionali più appaganti fa fatica a trovarne e, sul fronte opposto, le aziende sperimentano difficoltà nell’offrire impieghi allettanti e attrattivi. Il risultato è un ossimoro: nel corso del 2023, si legge nello studio del Politecnico, il 59% delle organizzazioni intende assumere personale ma il 94% di queste fa fatica a trovare dipendenti.
Un eccessivo investimento nell’iperpersonalizzazione del lavoro alle origini del Grande Pentimento
E tra chi ha dato seguito al proposito di cambiare lavoro, una parte non irrilevante non ha trovato soddisfazione, rivalutando in positivo il vecchio impiego. È il cosiddetto ‘Great Regret’ (Grande Pentimento) che la ricerca dell’Osservatorio stima abbia colpito in Italia il 41% dei dimissionari, principalmente uomini e donne con più di 50 anni di età che in qualche caso hanno abbandonato la situazione precedente senza una alternativa pronta. Più in generale, ed è un’altra delle tendenze accentuate dalla pandemia, una delle motivazioni del ‘pentimento’ individuate dallo studio è che troppi lavoratori si sono creati l’idea che il lavoro sia qualcosa di individuale, alimentando così una iperpersonalizzazione del rapporto di impiego che insieme alla (iper)flessibilità finisce per accentuare l’insicurezza e il senso di precarietà. Aspetti che portano al malessere e in ordine ai quali, osserva la ricerca del Politecnico, “serve un riaggiustamento delle aspettative su cui le imprese possono fare molto, soprattutto ridando senso all’appartenenza dei lavoratori ad una organizzazione».
Le politiche aziendali di inclusione quale antidoto al malessere e all’abbandono del personale
Secondo l’Osservatorio, da parte delle aziende è sempre più necessario ripensare il lavoro attraverso un totale cambiamento di mentalità che sfidi la cultura tradizionale: alla fragilità occorre rispondere con la collaborazione, all’ansia con l’empatia. Per coinvolgere e motivare i lavoratori, evitando derive quali il Quiet Quitting, il Job Creeping e, ovviamente, le stesse dimissioni, occorre valorizzare i talenti e gli interessi delle persone, fare leva su iniziative che portino a una più matura integrazione tra vita lavorativa e vita privata e, infine, investire in una leadership in grado di supportare questo cambiamento.
E intanto una nuova figura professionale si affaccia: l’escape coach
E da parte dei lavoratori? Quali accortezze e prudenze è bene darsi per non rischiare di cadere dalla padella alla brace e ritrovarsi poi a rinsaldare le fila dell’esercito dei ‘Grandi Pentiti’? Certo sarebbe bene resistere nel posto di lavoro che si vuole lasciare fino a quando non ci sia un’alternativa di cui si è ragionevolmente convinti. E prima ancora che ciò accada, per individuare una via di fuga di cui poi non pentirsi, sarebbe bene prendersi un momento per riflettere e chiarire con se stessi cosa si desidera davvero. Ma questo non è sempre facile ed è oltremodo significativo che in questi ultimi anni si sia affacciata sul mercato una specifica figura professionale, l’escape coach, che si propone di accompagnare i lavoratori insoddisfatti verso una nuova vita.
Il progetto 'Giovani Talenti' di Coopservice
“La nostra forza sta nella capacità di investire sul futuro e di credere nei giovani che lo realizzeranno”. È questa la filosofia che da sempre anima il progetto Giovani Talenti che, in questi anni, ha coinvolto giovani di alto potenziale, provenienti da diverse funzioni aziendali in Coopservice, in un programma di iniziative formative particolarmente innovative e stimolanti, come ad esempio la possibilità di applicare i principi aeronautici e dello Human Factor nel contesto aziendale come strumento per migliorare il funzionamento del team nella gestione della comunicazione, degli stili di leadership e di problem solving.
In coerenza con il Piano Industriale 2023-2026, il progetto si inserisce all’interno di una più ampia iniziativa di sviluppo organizzativo che mira a ridisegnare i processi e ad abilitare nuove progettualità per migliorare e innovare le logiche di governance e della struttura interna. Con evidenti ricadute positive sul benessere e sulla motivazione delle persone che, sentendosi più ingaggiate e coinvolte, investono maggiori energie nel raggiungimento, non solo degli obiettivi aziendali, ma anche personali e professionali.