Perchè il World Environment Day
Istituita nel 1972, e celebrata ogni 5 giugno dal 1974, la Giornata mondiale dell’Ambiente è lo strumento principale scelto dalle Nazioni Unite per promuovere la consapevolezza a livello globale della problematiche collegate alla salvaguardia della natura e alla protezione dell’ambiente.
Negli anni si è focalizzata su temi diversi, quali la desertificazione, lo scioglimento dei ghiacci, l’inquinamento marino, i cambiamenti climatici: il tema scelto per quest’anno è il ripristino (restoration) degli ecosistemi.
Il filo conduttore del ‘Ripristino degli ecosistemi’
La restoration è una delle cosiddette 3 R, le parole d’ordine nelle strategie mondiali per l’inversione di rotta del modello di sviluppo e per la lotta al climate change.
Reimagine. Recreate. Restore, appunto. E delle tre è forse la principale, se è vero che è il termine che accomuna la Giornata della Terra, la Giornata dell’Ambiente 2021 e l’intero Decennio delle Nazioni Unite che va dal 2021 fino al 2030, denominato ‘Decade on Ecosystem Restoration’. E il fatto che lo stesso decennio sia contestualmente dedicato alla ‘Scienza oceanica per lo sviluppo sostenibile’ costituisce una ulteriore angolazione della questione, considerato che proprio gli oceani rappresentano il più vasto degli ecosistemi terrestri.
La grande scommessa della #GenerationRestoration
Non solo. Perché l’obiettivo del ripristino ambientale è quello scelto anche per coniare l’hashtag che, oltre ad accompagnare il lancio del ‘Decennio della Restoration’, fa da filo conduttore alle iniziative dell’Onu per la salvezza del Pianeta.
#GenerationRestoration è infatti un vero e proprio appello alla mobilitazione globale, rivolto ad ogni persona, istituzione, organizzazione o impresa che abbia a cuore il futuro della vita.
“Siamo la generazione che può far pace con la natura” si legge nella homepage del sito del World Environment Day. Anche se non possiamo tornare indietro per riparare ai guasti prodotti, ancora nulla è perduto perché gli ecosistemi hanno una caratteristica preziosa e unica: la capacità di rigenerarsi e adattarsi ai cambiamenti.
A patto che non si continui ad ucciderli. Riducendo il nostro impatto sulla Terra, gestendo al meglio le risorse, lasciando il tempo alla natura di rigenerarsi, l’equilibrio degli ecosistemi può essere recuperato.
I vitali servizi forniti all’umanità dagli ecosistemi terrestri
L’obiettivo è dunque prevenire, fermare e invertire i danni inflitti agli ecosistemi del Pianeta, cercando di passare dallo sfruttamento della natura alla sua guarigione.
Perché gli ecosistemi sono gli habitat che rendono possibile la biodiversità e, viceversa, la continua perdita di biodiversità altera l’equilibrio degli ecosistemi. Si tratta di questioni che stanno a fondamento delle condizioni di vita sul nostro Pianeta e non a caso gli ecosistemi vengono definiti unità ecologiche fondamentali.
Tutti i giorni usufruiamo in maniera inconsapevole dei benefici che ci offrono gli ecosistemi naturali. Si pensi all’assorbimento di carbonio e al rilascio di ossigeno, alla regolazione del clima, alla produzione di cibo, al mantenimento delle catene alimentari, ai servizi offerti dall’impollinazione, al controllo dell’erosione e alla formazione del suolo.
Senza ecosistemi non ci può essere sostenibilità
Eppure, nonostante la crescita della coscienza ambientale e la diffusione della parola d’ordine della restoration, gli ecosistemi e la biodiversità continuano a deteriorarsi su tutto il Pianeta: l’abuso dello sfruttamento e del consumo delle risorse naturali insieme all’inquinamento e al cambiamento climatico stanno minando alla base questo patrimonio assolutamente vitale.
Secondo i dati dell’ONU, l’intervento umano ha già alterato in modo significativo i tre quarti degli ecosistemi terrestri e circa i due terzi di quelli marini. Ma c’è chi, in modo autorevole, evoca scenari se possibile ancora più tragici: un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Frontiers in Forests and Global Change, sostiene che solamente il 3% delle terre emerse sarebbe ecologicamente intatto, con una popolazione sana di tutti i suoi animali originali e un habitat non violato.
Si tratta di notizie non propriamente rassicuranti, perché la difesa degli equilibri ecologici sta alla base di qualsivoglia progetto che miri a recuperare la sostenibilità del nostro modello di vita.
Gli ecosistemi, l’Agenda 2030 e il Covid-19
Certo gli ecosistemi terrestri sono complessi e molto vari, e il loro ripristino richiede una impegnativa pianificazione su scala globale. Ma se non si passa da questa necessaria rivitalizzazione si rende di fatto impraticabile l’Accordo di Parigi sul clima e il raggiungimento dei 17 Obiettivi dell’Agenda 2030.
A partire da quelli più direttamente collegati alle tematiche della salvaguardia degli ecosistemi e della biodiversità quali la lotta al cambiamento climatico (Obiettivo 13), la conservazione della vita sott’acqua e sulla terra (Obiettivi 14 e 15), lo sradicamento della povertà e della fame (Obiettivi 1 e 2).
Così come la tragedia del Covid-19 ha dimostrato che distruggendo le foreste e cacciando illegalmente gli animali – cioè non rispettando le indicazioni dell’Obiettivo 15- aumentiamo la probabilità di contatto con essere viventi che portano in sé virus pericolosi, favorendo il salto di specie di malattie che mettono a repentaglio la salute globale (Obiettivo 3).
Il valore economico degli ecosistemi
In tempi di monopolizzazione dell’attenzione di governi e pubbliche opinioni sulle varie sfaccettature dell’emergenza sanitaria, proprio il collegamento causale con la pandemia in corso ci ricorda quanto sia importante che l’impegno per la tutela ambientale e la lotta al climate change ritornino quanto prima ad essere le priorità delle agende politiche di tutto il mondo.
Allo scopo di accrescere tale consapevolezza le Nazioni Unite hanno introdotto nuovi indicatori economici finalizzati alla valutazione del capitale naturale. Ad esempio il Programma ambientale (UNEP) e l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) hanno prodotto una stima del valore economico degli ecosistemi.
In base a tali stime si è considerato che foreste, mangrovie e torbiere assorbono fino a un terzo delle emissioni di CO2. E che terreni sani possono far crescere piante e coltivazioni di miglior qualità, permettendo di alimentare un numero crescente di persone (è probabile che entro il 2050 la popolazione mondiale toccherà quota 9 miliardi), senza dover abbattere altre foreste.
Si tratta di benefici complessivamente stimati in circa 125 trilioni di dollari, che, scrive la Fao, “non sono adeguatamente contabilizzati nelle politiche economiche. Il che significa che non vi sono investimenti sufficienti per la protezione e la gestione degli ecosistemi”.
Quando il PIL non basta più: che cos’è l’indice GEP
E poi c’è il GEP, acronimo di Gross Ecosystem Product, che si contrappone (o per meglio dire, integra) il Gross Domestic Product, in Italia conosciuto come PIL, parametro universalmente utilizzato per misurare il grado di prosperità economica di un Paese.
La grandezza macroeconomica definita tre secoli fa da Adam Smith, regina delle statistiche e onnipresente nel discorso pubblico, ha un problema oggi piuttosto rilevante: non tiene conto degli apporti dell’ambiente al benessere economico della comunità.
A questa lacuna hanno cercato di ovviare scienziati ed economisti dell’Università di Stanford con il GEP, una sorta di ‘prodotto lordo della natura’, in grado cioè di fornire una valutazione economica dei servizi forniti dagli ecosistemi allo sviluppo della società.
Tecnicamente l’equazione che calcola il GEP è analoga a quella del PIL, ma considera un enorme quantità di dati ambientali relativi al Paese in oggetto, così da restituire un valore economico dei suoi asset ecologici, quali foreste, terreni fertili, pulizia dell’aria e biodiversità.
È a questo proposito significativo che Commissione statistica delle Nazioni Unite stia valutando di standardizzare questo parametro a livello globale ed è altrettanto ragguardevole che regioni di uno dei Paesi maggiormente responsabili dell’effetto serra, la Cina, stiano sperimentando proprio il GEP per misurare l’impatto di nuove strategie di crescita sostenibile.
Nelle rilevazioni macroeconomiche dell’immediato futuro il GEP è dunque destinato ad affiancare il PIL? Quello che è certo è che il climate change sta cambiando il mondo. E il PIL da solo non basta più a descriverlo.
Al via la ‘Decade on Ecosystem Restoration’
Il World Environment Day del 5 giugno 2021 lancia dunque ufficialmente il Decennio delle Nazioni Unite per il ripristino degli ecosistemi, istituito con l’obiettivo di far rivivere miliardi di ettari di superficie terrestre degradati dall’azione umana.
A proposito di GEP, secondo gli esperti delle Nazioni Unite il ripristino di 350 milioni di ettari di terreno degradato tra oggi e il 2030 potrebbe generare l’equivalente di 9 trilioni di dollari in servizi ecosistemici. E rimuovere dall’atmosfera altre 13-26 giga tonnellate di gas serra.
Rivitalizzando terreni agricoli, praterie, foreste, zone umide e torbiere si ricostruisce infatti la loro capacità di assorbire carbonio. Contestualmente, si protegge l’habitat per la biodiversità e si aumenta la fertilità del suolo, incrementando la disponibilità di acqua e favorendo la protezione del mondo dalle malattie zoonotiche quali il Covid-19.
Coopservice per gli ecosistemi: il sostegno all’Instituto Terra
Il tema della protezione degli ecosistemi e della biodiversità è già da tempo parte integrante della corporate identity di Coopservice, che alle politiche aziendali di preservazione del Capitale Naturale dedica un intero capitolo del Report integrato pubblicato annualmente.
Oltre all’adozione di procedure e metodologie per ridurre l’impronta ambientale delle proprie attività, Coopservice supporta su larga scala azioni e progetti finalizzati al ripristino ecologico.
Tra di essi figura il sostegno all’Instituto Terra, un’organizzazione senza scopo di lucro fondata nell’aprile 1998 dal grande fotografo Sebastião Salgado e dalla moglie Lélia Deluiz Wanick. Dedicata al recupero ambientale e allo sviluppo rurale sostenibile nella Vale do Rio Doce, (Stato del Minas Gerais, Sudeste del Brasile) scopo dell’attività dell’Instituto è restituire alla natura ciò che decenni di degrado ambientale avevano distrutto.
Grazie alla sua azione migliaia di ettari di aree degradate sono state ripristinate a Foresta Atlantica e quasi 2.000 sorgenti sono in via di recupero.