Smart working: una positiva occasione di cambiamento, nata da una terribile disgrazia
È forse stato uno degli effetti del lockdown che più persone hanno conosciuto. Una parola composita che fino a marzo era appannaggio quasi esclusivo di ricercatori universitari o, in qualche caso illuminato, di responsabili risorse umane di grandi aziende. Ora invece la definizione “smart working”, o “lavoro agile” come denominato dall’ordinamento giuridico italiano, è finalmente entrata nel lessico comune ed è divenuta oggetto di attenzione politica e pubblico dibattito. Ma, soprattutto, essendo stata sperimentata sulla pelle viva di molte aziende e lavoratori, rappresenta un orizzonte strategico su cui l’intero mondo del lavoro è chiamato a confrontarsi. E questo non solo per ragioni di necessità, dovendo convivere con il Covid-19 ancora per un tempo imprecisato, ma in quanto trattasi di un fattore di innovazione che può incidere positivamente sulla competitività delle imprese e sulla sostenibilità dei pubblici servizi. Confermando ancora una volta l’importanza, nella contemporaneità, di dimostrarsi “resilienti”, cioè di far fronte reattivamente ad eventi traumatici, trasformando anche gli accadimenti peggiori in occasioni di cambiamento e incubazione di progresso.
Non solo ‘da casa’, ma una nuova cultura e organizzazione del lavoro
Il primo aspetto da considerare è che in realtà quella che abbiamo conosciuto in questi mesi è solo la più immediata delle diverse sfaccettature dello smart working. La prima immagine infatti che ciascuno di noi è portato ad associare al lavoro agile è quella del “lavoro da casa”, cioè il trasferimento dell’ufficio tra le mura dell’abitazione. In realtà la concezione “smart” è molto più complessa e, nelle riflessioni delle scienze organizzative e manageriali, è inscindibilmente legata ad una trasformazione della cultura e della organizzazione del lavoro fondata sull’autonomia e la responsabilizzazione del dipendente. Un ripensamento complessivo che può portare benefici a tutte le parti in causa e che, se verrà praticato in misura crescente su larga scala, può ridefinire radicalmente gli stili di vita delle persone e l’assetto urbanistico di città e territori, a favore della qualità della vita e dell’ambiente.
Pre-Covid: un fenomeno di nicchia
Del resto così come nessuno era preparato ad affrontare una pandemia di questa gravità, erano ancora relativamente pochi i datori di lavoro che, prima del lockdown, avevano inserito il lavoro smart tra gli obiettivi da raggiungere: secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano nel 2019 lo smart working veniva praticato nel nostro Paese da 570.000 persone. Certo il 20% in più rispetto all’anno precedente, ma fondamentalmente un fenomeno di nicchia, confinato essenzialmente alle grandi aziende del Nord, mentre rimaneva davvero marginale il coinvolgimento delle piccole-medie imprese e delle pubbliche amministrazioni. Ma anche gli stessi “smart worker” nell’epoca pre-Covid vi ricorrevano saltuariamente, operando da remoto mediamente un solo giorno a settimana.
L’esplosione Post-Covid: lo smart working ‘si può fare’
L’arrivo del Coronavirus ha cambiato tutto. Uno tsunami che, pur nella tragicità del momento, ha messo in condizione di superare ritardi che i decennali richiami alle potenzialità della tecnologia e alla sostenibilità ambientale non avevano colmato: il ‘lavoro da casa’ è improvvisamente divenuto in tantissimi casi l’unica modalità operativa praticabile e ci si è organizzati dall’oggi al domani, saltando a piè pari confronti, dibattiti, analisi e studi: non c’era il tempo. Un enorme scossone che, a parte le aziende che avevano già intrapreso progetti di questo tipo, ha in prima battuta creato smarrimento e disagi ma che hai poi portato a maturare la consapevolezza che ‘si può fare’.
Con il lockdown in poche settimane il numero di lavoratori ‘smart’ è schizzato a 8 milioni. Ma è il portato dell’esperienza che impressiona. Una ricerca condotta tra marzo e aprile dalla Cgil e dalla Fondazione DI Vittorio riporta che tra i lavoratori il 94% ha una visione positiva dello smart working, poiché la identifica quale modalità che può portare sia a significative riduzioni di stress, costi e perdite di tempo negli spostamenti quotidiani, che ad un bilanciamento migliore dei tempi di vita (il work-life balance di cui si parla da tempo nelle scienze sociali) nonché ad una maggiore flessibilità e produttività sul lavoro. Chi ha provato il lavoro agile ne è in generale rimasto soddisfatto: l’82% vi è stato costretto dalla pandemia ma oltre il 60% sarebbe di certo disponibile a proseguirlo. Così come generalmente positivo appare l’impatto sulle aziende e le pubbliche amministrazioni: una recente indagine condotta da Fondirigenti, il fondo interprofessionale per la formazione continua dei dirigenti promosso da Confindustria e da Federmanager, su un panel di 12 mila contatti (di cui il 90% rappresentativo di piccole e medie imprese) dimostra che “non sono solo i dipendenti ad apprezzare questa nuova modalità di lavoro, ma soprattutto le aziende, che hanno deciso di renderla prioritaria e di investire di più” avendo riscontrato buoni risultati in termini di produttività, economicità e benefici per i lavoratori.
Smart working: le questioni aperte
Certo non mancano i lati problematici della questione. La stessa ricerca della Fondazione Di Vittorio attesta che il 71% di chi ha lavorato “smart” segnala problemi, in particolare legati all’assenza di confronto e relazione continua con i colleghi e alla difficoltà di far combaciare i ritmi di lavoro con i carichi familiari e domestici inevitabilmente in incremento. Così come le organizzazioni sindacali hanno posto a gran voce la necessità di aggiornare la regolamentazione della materia (l’Italia è comunque uno dei pochi Paesi che già dal 2017 ha una legge specifica) prevedendo che nei nuovi contratti collettivi e aziendali siano affrontati problemi quali la formazione, la privacy, il diritto di disconnessione e di pausa, il diverso trattamento economico tra giorno e notte e tra giorni feriali e festivi. Ma, appunto, si tratta di questioni che, al di là delle regole e delle norme, richiamano preventivamente la necessità della maturazione di una nuova cultura del lavoro e dell’organizzazione su cui l’epoca Covid ha segnato solo un punto di inizio.
Una “rivoluzione” da continuare, oltre l’emergenza
L’esperienza obbligata indotta dall’emergenza sanitaria è stata recepita nei diversi Dpcm di emissione governativa, quali ad esempio il decreto del 26 aprile che raccomandava “il massimo utilizzo di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza”. Non c’è dubbio da questo punto di vista come l’applicazione su vasta scala del lavoro agile abbia fortemente contribuito alla riduzione dei danni sanitari ed economici della pandemia. Ma, soprattutto, anche se “forzata”, “ha rappresentato l’occasione – come scrive Mariano Corso responsabile scientifico dell’Osservatorio del Politecnico – per un’esperienza preziosa che ha permesso di fare in pochi mesi un percorso di apprendimento e crescita di consapevolezza che in condizioni normali avrebbe richiesto anni. Le persone hanno imparato ad usare strumenti digitali innovativi e a relazionarsi efficacemente in team virtuali: si sono abbattute barriere e pregiudizi segnando un punto irreversibile di svolta nell’organizzazione del lavoro”. Siamo dunque solo agli inizi di una inattesa rivoluzione? Forse è presto per dirlo ma di certo, scrive Daniele Vulpi su Repubblica, “viene difficile immaginare che il mondo del lavoro possa richiudersi nel suo passato con la stessa velocità con cui è stato costretto ad aprirsi al futuro”.