La prima volta del segno meno su tutti i combustibili fossili
La parola chiave è ‘transitioning away’. Non è il drastico e incontrovertibile ‘phase out’ o addirittura ‘phase down’ che la metà dei Paesi del mondo auspicava, ma è comunque la prima volta che nel documento finale di una Conferenza mondiale sul clima si traccia esplicitamente una direzione di uscita da un modello di sviluppo fondato sui combustibili fossili. Perchè fino a ieri si era sempre solo auspicata una generica ‘riduzione’ e ci si era concentrati essenzialmente sul carbone. Abbandonando l’atteggiamento dello struzzo, nel documento finale della COP28 appena conclusasi a Dubai, si prende ora atto di quella che per molti, ma non per tutti, è una ovvietà: per fermare il riscaldamento globale bisogna smettere di bruciare non solo carbone ma anche petrolio e gas.
Transitioning away vs phase out
Secondo una visione fiduciosa si tratta solo di una questione lessicale, la sostanza non cambia. Così la pensa, ad esempio, il portavoce della Commissione europea per l’Energia secondo cui “sono parole diverse per dire la stessa cosa”, perché la strada (di uscita) è finalmente tracciata. Un ottimismo interpretativo condiviso dai principali consumatori di combustibili fossili – Usa e Cina – e fatto proprio dalla presidenza della Conferenza, appannaggio di uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio (Emirati Arabi Uniti). A pensare positivo, forse non è del tutto estraneo all’esito della COP28 un meccanismo psicologico indotto da una parola – ‘transizione’ – che, da quando il climate change è diventato un trending topic, è ormai diventata parte del linguaggio comune. Per cui parlare di progressiva eliminazione suonava decisamente peggio che delineare una seppur graduale ‘transizione fuori’ dai combustibili fossili.
Se il transitioning ‘autorizza’ interpretazioni diverse
A pensare male, aleggia invece il sospetto dell’accordo su una formula retorica dietro cui possono incasellarsi posizioni radicalmente diverse. Un timore autorizzato dall’emergere, fin dal primo minuto dopo l’annuncio, di interpretazioni molto distanti tra i Paesi Opec e il resto del mondo. Esemplare, in questo senso, è il commento del ministro dell’Energia dell’Arabia Saudita secondo cui a Dubai “la questione dell’abbandono immediato e graduale dei combustibili fossili è stata seppellita, lasciando i Paesi liberi di fare le proprie scelte”. Non solo. Diversi osservatori hanno fatto notare che una effettiva volontà condivisa di allontanamento dalle fonti fossili implicherebbe, conseguentemente, un cronoprogramma di specifiche azioni e risultati che invece non compare nel documento finale.
La forza delle parole, la debolezza delle azioni concrete
Non che mancassero gli elementi (scientifici) per fissare degli obiettivi circostanziati. Visto che il testo dell’accordo contiene un esplicito riferimento a “raggiungere lo zero netto delle emissioni nel 2050, secondo quello che ci è indicato dalla scienza”, le voci critiche hanno fatto notare che, in termini di impegni concreti, di fatto è stato invece ad esempio ignorato l’ultimo rapporto pubblicato dall’IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite. Approvato da 195 governi il 4 aprile 2022, il rapporto degli scienziati ONU afferma che per contenere il riscaldamento globale entro gli 1,5°C previsti dall’Accordo di Parigi, le emissioni globali di gas serra devono diminuire del 43% entro il 2030, mentre la sommatoria degli attuali piani nazionali per il clima dà come risultato solo una riduzione del 7%.
Intanto il livello globale delle emissioni non cessa di aumentare
Per questo, argomentano gli osservatori critici, indicare genericamente l’obiettivo al 2050 senza prevedere fasi di valutazione e corrispondenti impegni fattivi intermedi, ci espone al rischio di arrivare al 31 dicembre 2049 per scoprire che l’obiettivo non è stato raggiunto e che la CO2 è ulteriormente aumentata insieme alla temperatura globale. Di certo ora bisognerà vedere come, in attuazione degli impegni condivisi, i Paesi metteranno a terra le azioni e le politiche necessarie. Il primo step di verifica è fra due anni, quando nel 2025 conosceremo nel dettaglio gli aggiornamenti dei Piani nazionali climatici (Ndc) dei diversi Stati. Nel frattempo, va ricordato che il livello delle emissioni globali continua ad aumentare e l’anno 2023 passerà agli archivi quale anno più caldo della storia.
Transitioning away, dunque
Rimane comunque il passo avanti della condivisione della necessità di andare oltre (tutte) le fonti energetiche inquinanti, tenendo conto che le ‘fossili’ sono responsabili del 75% dei gas serra (90% dalla sola CO2) ma forniscono ancora l’80% dell’energia globale. Transitioning away, dunque, “dai combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in modo da raggiungere l’azzeramento netto delle emissioni di gas serra entro il 2050”. È questa la formulazione che ha fatto virare verso l’ottimismo le interpretazioni di un vertice a cui tutto il mondo guardava invece con prevalente scetticismo. E per la verità questa non sarebbe l’unica novità positiva.
Obiettivo Zero Netto: giù il pedale su rinnovabili ed efficienza energetica
Gli accordi finali del vertice, infatti, affermano l’impegno a “triplicare la capacità di energia rinnovabile a livello globale e a raddoppiare il tasso medio annuo di miglioramento dell’efficienza energetica entro il 2030”. In questo caso si tratta di impegni con riferimenti evidentemente più precisi, ma che non sarà comunque semplice rispettare nonostante i considerevoli tassi di crescita già rilevati e l’importanza sempre più marcata delle tecnologie green all’interno delle economie mondiali. Secondo l’Agenzia internazionale per l’Energia, gli investimenti necessari per raggiungere i risultati prefissati dovrebbero, infatti, più che raddoppiare rispetto al livello del 2022, mentre il think tank Ember calcola che le rinnovabili avrebbero bisogno di un tasso di crescita del 17% annuo.
Purché si smetta di investire sulle fonti fossili
A questo proposito occorre, però, sgombrare il campo da un equivoco. Triplicare le rinnovabili e investire massicciamente su solare, eolico, idroelettrico, idrogeno verde è maledettamente ambizioso ma economicamente e finanziariamente forse fattibile. Anche con l’ausilio del nucleare di ultima generazione, su cui la COP28 ha registrato un’apertura in attesa della maturazione della nuova tecnologia di fusione nucleare. Tutto questo, in ogni caso, può portare a concreti passi avanti sulla strada della decarbonizzazione solo se non si accompagnerà ad un parallelo incremento del ricorso alle fonti fossili. Se così fosse, si tratterebbe con tutta evidenza di un gioco a somma zero che annullerebbe ogni concreto beneficio all’ambiente.
Due esempi di percorsi contradditori: Cina e India
Non si tratta, purtroppo, di paventare rischi teorici. La Cina è oggi il paradigma più evidente di questo dubbio binario che non condurrebbe da nessuna parte. Il grande Paese asiatico è il maggiore investitore e leader mondiale nella produzione e sviluppo di solare ed eolico. Allo stesso tempo, la necessità di sostenere i piani di crescita economica determina il sempre più massiccio ricorso alle centrali a carbone e all’uso del petrolio, così che il risultato è che la nazione numero uno al mondo nell’energia pulita si configura contemporaneamente quale uno dei più grandi emettitori di carbonio. Un discorso molto simile vale anche per l’India.
Il metano ti dà una mano?
Anche il ricorso al gas naturale alimenta l’equivoco. Certo la sua indispensabilità quale elemento della transizione verso la decarbonizzazione non è in discussione ma, al contempo, i documenti finali della COP28 ne riconoscono esplicitamente (per la prima volta) la problematicità, indicando la via di una sua riduzione entro il 2030. Il metano è il secondo gas serra dopo la CO2: è vero che la sua velocità di dissipazione in atmosfera è molto più alta, e quindi, riducendolo, l’incidenza che ha sul global warming potrà essere più facilmente debellata. Ma rimane il fatto che il gas ha un potere clima-alterante 80 volte superiore a quello dell’anidride carbonica nell’arco di 20 anni, e di circa 100 volte nell’arco di 100 anni. Riconoscerne l’importanza ancora per un paio di decenni pare ragionevole, pur nella consapevolezza delle speculazioni e delle strumentalizzazioni geopolitiche cui sarà sottoposto il mercato nei prossimi anni. Condividere per la prima volta la necessità di farne progressivamente a meno, dati gli (enormi) interessi economici in ballo, è parso alla maggioranza degli osservatori una ammissione di una certa importanza. In attesa di comportamenti coerenti.
L’impegno di Coopservice verso una strategia di decarbonizzazione
Coopservice ha avviato un percorso di sostenibilità ambientale per sviluppare una strategia di decarbonizzazione che parte dalla misurazione e identificazione dei fattori che determinano la Corporate Carbon Footprint per arrivare a definire obiettivi di riduzione realistici e fattibili, nonché strategie efficaci verso la carbon neutrality.
Un’impresa tutt’altro che semplice per un’azienda che non produce beni e quindi non controlla l’intero processo, ma eroga servizi integrati di facility presso i propri clienti e pertanto con elementi di complessità difficili da gestire e monitorare.
Tuttavia, le motivazioni per percorrere questa strada verso la decarbonizzazione sono molteplici e consistenti.
Alle pressioni normative e regolatorie delle istituzioni, in primis l’Unione Europea che spinge verso una transizione ecologica che limiti fortemente le emissioni (con l’obiettivo di ridurre il 50% delle emissioni entro il 2030), si aggiungono le pressioni degli stakeholder, sempre più attenti e sensibili alle tematiche ambientali, che chiedono a gran voce alle imprese di attuare azioni concrete per ridurre la propria impronta ambientale.
Ma anche il mercato esige una riflessione accurata sui rischi ambientali e su come evitare o attutire le conseguenze negative sul business aziendale, come ad esempio sta avvenendo con la scarsità di risorse, l’aumento dei costi delle materie prime, le catastrofi naturali come la siccità, gli incendi e le alluvioni legate al cambiamento climatico.
La sostenibilità diventa così, non solo un fattore etico di responsabilità, ma un driver competitivo, capace di trasformarsi in un vantaggio reale nei meccanismi delle gare di appalto pubbliche e nelle dinamiche di accesso al mercato.
Gli sforzi per rendicontare le emissioni secondo il protocollo GHG sono motivati dalla volontà di Coopservice di avere uno standard di riferimento riconosciuto a livello mondiale che consenta di comparare il dato in modo coerente di anno in anno, di fissare degli obiettivi di miglioramento e di confrontare i dati con imprese dello stesso settore.
Nel 2022 Coopservice ha adottato efficaci politiche di risparmio e di efficientamento energetico sia internamente alle sedi aziendali sia in alcuni importanti cantieri, nei quali è stato conseguito un sostanzioso calo dei consumi grazie all’implementazione di sistemi di cogenerazione che hanno determinato notevoli benefici in termini di efficienza, costi ed emissioni. Il totale delle emissioni (Scope 1, 2 e 3) è diminuito del 28% rispetto al 2021 con una riduzione di oltre 40 mila tCO2e.