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Gli oceani e i mari, i nostri possibili migliori alleati contro il climate change
Perché è così importante l’Obiettivo 14 dell’Agenda 2030 dedicato alla “vita sott’acqua”
Gli oceani e i mari, gli amici dimenticati
Se è vero, come purtroppo è, che il climate change rappresenta la più grande sfida che l’umanità è chiamata ad affrontare nei prossimi decenni e se è vero, come purtroppo è, che la sua manifestazione più pericolosa e percepibile è il riscaldamento globale (global warming), allora c’è un elemento naturale, alla base dell’ecosistema planetario, di cui dobbiamo particolarmente preoccuparci: gli oceani, le enormi distese marine che coprono i tre quarti della superficie terrestre. Il 97% dell’acqua presente sul globo è infatti raccolta negli oceani e nei mari. Insieme, la loro superficie è più di 3 volte superiore alla somma di quella di tutti i continenti terrestri e dà forma al più grande ecosistema del nostro Pianeta: un patrimonio indispensabile alla vita, un sistema che consente di regolare il clima, fornisce circa la metà dell’ossigeno necessario alla vita e assorbe circa un terzo del biossido di carbonio (anidride carbonica, CO2) in atmosfera. Si capisce allora perché gli oceani, fornendo un servizio incredibile all’umanità, possano essere i nostri più grande alleati nella lotta ai cambiamenti climatici.
Gli oceani termoregolatori e generatori di ossigeno
Quando parliamo di oceani in riferimento al cambiamento climatico tendiamo a considerare principalmente l’aspetto dell’innalzamento del loro livello a seguito del global warming, con i prevedibili disastri conseguenti. Ma in realtà il problema è ancora più grave e complesso perché gli immensi oceani sono sia i principali termoregolatori che i maggiori fornitori di ossigeno del nostro Pianeta. Più della metà dell’ossigeno che respiriamo arriva infatti dal plancton, il popolatissimo bosco microrganico che ricopre la superficie di tutti i bacini idrici del pianeta. E buona parte del calore solare trattenuto sulla superficie terrestre grazie all’azione dei gas serra viene assorbito dalle acque marine che poi, attraverso la dinamica delle correnti (in gergo scientifico definita “nastro trasportatore”, di cui la notissima corrente del Golfo è solo una componente) lo distribuisce dai Tropici ai Poli assicurando condizioni di clima temperato e vivibilità, altrimenti impossibile, sul nostro Pianeta.
I mari sono il polmone blu della Terra
Oltre la metà dell’ossigeno che respiriamo arriva dunque dal plancton marino. Quello che infatti non tutti sanno è che la Terra ha due polmoni. Uno è costituito dalle foreste, il secondo dal mare. Le acque superficiali, raggiunte dalla luce del Sole, brulicano di microrganismi galleggianti che producono il 50% dell’ossigeno del pianeta grazie, analogamente a quanto avviene per le piante terrestri, al processo della fotosintesi clorofilliana: per ogni respiro che proviene dal polmone verde, un altro è offerto del polmone blu. Al momento sono censite migliaia di specie di microrganismi marini ma siamo lontanissimi dall’averne una mappa completa, così come del resto siamo ancora quasi agli albori della conoscenza dell’immenso ecosistema oceanico (si stima che tale conoscenza non superi ancora il 5%). Un lavoro che probabilmente occuperà i ricercatori ancora per molte generazioni poiché si valuta che in esso abiti l’80% delle specie viventi; e se ad oggi sono state mappate oltre 230.000 specie marine, ogni anno se ne scoprono 2.000 nuove.
Il fitoplancton, generatore primario di ossigeno e nutrimento
I microrganismi acquiferi sono talmente minuscoli che, pur essendo concentrati in enormi quantità, rappresentano meno dell’1% della biomassa globale. Essi costituiscono la base della catena alimentare marina e sono l’organismo più abbondante nell’oceano, nell’ordine di milioni di organismi per litro di acqua. Il plancton include organismi diversissimi tra di loro per natura (vegetale o animale) e dimensione: si va da esseri uni-cellulari osservabili solo al microscopio ad animali piuttosto grandi, come le meduse. Ma è quello vegetale (chiamato fitoplancton, anche conosciuto come ‘erba dell’oceano’) il protagonista della fotosintesi, e quindi dell’assorbimento di anidride carbonica (il 30% di quella in atmosfera): questi microscopici organismi utilizzano la luce del sole, l’anidride carbonica e le sostanze nutritive che risalgono dalle profondità del mare per crescere e per produrre ossigeno. Il carbonio assorbito, a differenza di quanto avviene nelle piante terrestri dove rimane a lungo ‘stoccato’ nel legno, resta però nella biomassa del fitoplancton solo per poco tempo, perché può prendere rapidamente molte ‘vie’. Una di queste è la catena alimentare acquatica. Oltre ad essere un efficacissimo ricettore di carbonio e produttore di ossigeno, il fitoplancton alimenta infatti i microrganismi ‘animali’ (zooplancton) dando il via alla catena alimentare: questi ultimi nutrono i pesci, da quelli più piccoli a quelli più grandi, ma anche mammiferi marini, come le balene, fino ad arrivare ad altri mammiferi, come l’uomo, che nell’acqua non vivono ma che si nutrono di prodotti del mare. Dal punto di vista della catena alimentare il fitoplancton è pertanto da considerarsi non solo l’innesco primario della maggior parte della vita acquatica, ma anche di quella terrestre, se consideriamo che i mari forniscono proteine nutritive a quasi 3 miliardi di esseri umani.
I danni del global warning sull’ecosistema marino
Su tutto questo perfetto meccanismo fondato sul fitoplancton quale ‘carburante’ dell’ecosistema marino si abbatte purtroppo il climate change e il riscaldamento globale in atto. Il circolo vizioso del continuo incremento della quantità di gas serra e il correlato aumento della temperatura finiscono per fare saltare i delicati equilibri del ciclo marino del carbonio, in quanto l’emissione di anidride carbonica in atmosfera è talmente elevata da non poter essere controbilanciata dalla sua captazione da parte del fitoplancton attraverso la fotosintesi. L’aumento di CO2 in atmosfera rende quest’ultima più calda e il calore in eccesso si trasmette all’idrosfera inducendo cambiamenti nella circolazione acquatica, in particolare in quella verticale, che è indispensabile al plancton vegetale per ottenere sostanze minerali dalle profondità dei bacini, da quelli lacustri a quelli oceanici. Acqua meno ‘mossa’ equivale a meno nutrimento in superficie e genera dunque meno plancton vegetale (secondo uno studio di qualche anno fa della Dalhousie University di Halifax, Canada, pubblicato sulla rivista Nature, esso sta diminuendo già dal secolo scorso al ritmo medio annuo dell’1%), quindi minore richiesta di carbonio per la fotosintesi e, conseguenza finale, più carbonio in atmosfera. Un circolo vizioso per il quale l’acqua diventa sempre più blu, nel senso di più povera di plancton vegetale, il mare sempre più povero e l’atmosfera sempre più calda.
Più acidità delle acque meno vita sotto i mari
Ma se l’acqua diventa più povera di plancton conseguentemente si presenta anche più acida, perché l’anidride carbonica, che in essa si scioglie, viene sempre meno assorbita. Noto come “l’altro problema della CO2” , l’acidificazione degli oceani è un processo che si è avviato fin dagli albori della rivoluzione industriale (+30% l’incremento di acidità ad oggi riscontrato, + 100-150% entro il 2100 in assenza di inversione di rotta) e provoca reazioni a catena nella biosfera marina. Questo fenomeno finisce infatti per mettere in pericolo tutte le forme viventi che vi abitano e che si sono sviluppate in un ecosistema con caratteristiche chimiche più o meno omogenee da migliaia di anni. Ad esempio provocando la diminuzione della concentrazione di ‘ioni carbonato’ l’acidificazione dei mari rende sempre più problematico per molti organismi acquatici costruire il proprio guscio, o altri elementi rigidi indispensabili alla loro vita, tramite il processo biologico di calcificazione. Fitoplancton, zooplancton, alghe coralline, coralli, echinodermi (gruppo a cui appartengono stelle e ricci di mare) e molluschi si servono di due minerali del carbonato di calcio per la costruzione delle proprie parti dure; se l’acqua risulta troppo acida gusci e strutture similari si dissolvono o non si formano affatto, pregiudicando le possibilità di sopravvivenza di moltissime forme di vita. Basti pensare all’eventuale scomparsa delle barriere coralline: significherebbe perdita di habitat e di risorse trofiche per innumerevoli specie di pesci e di microrganismi.
Gli ulteriori danni all’ecosistema marino causati dall’uomo
Ma come se non si profilassero già abbastanza guai determinati dall’eccesso di carbonio, il nostro modello di sviluppo genera disastri aggiuntivi. Attività direttamente riferibili al funzionamento dei nostri sistemi di produzione e consumo quali:
sovra-sfruttamento della pesca,
estrazioni a ritmi progressivamente crescenti dai fondali marini,
azioni inquinanti attraverso sversamenti di idrocarburi e sostanze tossiche,
deposito di enormi quantità di plastiche che poi non si riescono a gestire e smaltire,
inducono enormi danni ai fragili ecosistemi marini. Prendiamo ad esempio quest’ultimo aspetto: dalla metà del secolo scorso sono stati prodotti 8 miliardi di tonnellate di plastica e il 90% non è mai stato riciclato. Oltre 8 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica (equivalente al carico di 1 camion al minuto) finiscono nei nostri oceani ogni anno e, senza interventi, questo numero dovrebbe quasi raddoppiare fino a raggiungere i 17 milioni di tonnellate entro il 2025. Questa enorme quantità di materiale si è dispersa nell’ambiente, nelle discariche o nei fiumi, attraverso i quali è arrivata, e continua ad arrivare, negli oceani. E finisce per soffocare forme di vita o direttamente nella pancia dei pesci. Ogni tanto ce ne accorgiamo per qualche casualità o per alcuni fatti di cronaca particolarmente eclatanti: il capodoglio spiaggiato nella primavera del 2019 in Sardegna aveva la pancia piena di plastica a chili.
L’impegno delle istituzioni internazionali per la salvaguardia degli oceani
La scienza è chiara: gli oceani stanno affrontando minacce senza precedenti a causa delle attività umane. Se vogliamo affrontare le questioni più determinanti del nostro tempo, quali il cambiamento climatico, l’insicurezza alimentare, le malattie e le pandemie, la diminuzione della biodiversità, la disuguaglianza economica e persino i conflitti e le lotte, dobbiamo agire ora per proteggere lo stato dei nostri oceani. È significativo che le Nazioni Unite abbiano dedicato alla questione un Goal specifico e che si sia stata convocata nel 2017 la prima Ocean Conference planetaria (quella prevista per il 2020 a Lisbona è stata rinviata causa Covid) che ha dichiarato gli anni 2021-2030 quale ‘Decennio delle Nazioni Unite sulla scienza oceanica per lo sviluppo sostenibile’. Così come è altrettanto rilevante che il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici(IPCC) abbia prodotto un rapporto speciale dedicato al peggioramento degli oceani e delle calotte di ghiaccio e che 87 Paesi abbiano firmato l’Agreement on Port State Measures (PSMA), il primo accordo internazionale contro la pesca non regolamentata e illegale. Ma un enorme lavoro rimane da fare e i Target in cui si articola l’Obiettivo 14 ne forniscono una schematica sintesi:
riduzione dell’inquinamento marino,
protezione degli ecosistemi marini e costieri,
riduzione al minimo dell’acidificazione,
fine della pesca illegale e eccessiva,
aumento degli investimenti nella conoscenza scientifica e nella tecnologia marina,
rispetto diritto internazionale che richiede l’uso sicuro e sostenibile dell’oceano e delle sue risorse.
I gravi ritardi dell’Italia per la tutela e la valorizzazione del proprio patrimonio marino
La recente Relazione sullo stato di attuazione della Strategia per l’ambiente marino (Direttiva quadro 2008/56), presentata dalla Commissione europea il 25 giugno 2020, evidenzia i ritardi del nostro Paese nella presentazione dei report previsti e la carenza di molti dei dati conoscitivi. L’Italia risulta ancora tra gli Stati membri con sensibili inadempienze, nonostante la fondamentale importanza ambientale e socio-economica che il mare riveste per il nostro Paese. Il rapporto Asvis 2020 segnala che nel corso dell’ultimo decennio l’indice composito italiano relativo al Goal 14 mostra un andamento altalenante: migliora fino al 2015, grazie alla crescita significativa dell’indicatore relativo alle aree marine protette, per poi peggiorare sensibilmente negli ultimi tre anni, a causa dell’aumento dell’attività di pesca e del sovrasfruttamento degli stock ittici (90,7% rispetto ad una media europea del 38,2%). Qualche nota positiva arriva dall’adozione di alcune direttive dell’Unione Europea riguardo la limitazione della commercializzazione di determinati prodotti monouso di plastica (per esempio, piatti, posate e cannucce di plastica) e riguardo il trattamento degli scarichi delle navi e dei rifiuti negli ambienti portuali. Il ritardo dell’Italia è comunque grave, in relazione soprattutto all’elevato sviluppo costiero del nostro Paese e al suo ruolo strategico per l’economia (turismo, porti, pesca).
L’iniziativa ‘Plastic Free’ di CoopserviceNell’ambito delle procedure e delle metodologie adottate per minimizzare la propria impronta ambientale Coopservice ha ottenuto, tra le altre, la certificazione Ecolabel per servizio di pulizie a marchio Green Leaf e ha promosso iniziative di sensibilizzazione e coinvolgimento di soci e dipendenti nell’adozione di pratiche quotidiane all’interno dei luoghi di lavoro. Tra queste il progetto ‘Plastic Free’, una serie di misure per eliminare la plastica monouso in 15 delle principali sedi e filiali, come l’eliminazione delle bottigliette dai distributori automatici e la sostituzione di tutti i contenitori di plastica monouso (ad esempio i bicchierini per le bevande calde) con prodotti in materiale biodegradabile. Per facilitare ulteriormente le pratiche di riutilizzo a tutti i lavoratori delle sedi interessate sono poi state distribuite borracce personalizzate termiche in acciaio per i propri approvvigionamenti di acqua o bevande. Va ricordato inoltre che Coopservice figura tra i firmatari del ‘Manifesto per il nuovo Green Deal’, un documento sottoscritto dai rappresentanti delle più importanti aziende e organizzazioni di impresa del Paese per dare impulso all’attuazione degli obiettivi definiti dall’European Green Deal e dal Circular Economy Action Plan, i programmi per la crescita sostenibile varati recentemente dalla Commissione Europea.