Il costante incremento delle dimissioni in Italia
Il fenomeno delle ‘great resignation’ apparso dapprima negli States e poi diffusosi un po' in tutto il mondo occidentale sembra confermarsi anche nella prima epoca post-Covid. Solo, magari, bisogna intendersi sull’aggettivo. Se negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone, complice un mercato del lavoro più dinamico, i numeri sono impressionanti e non sempre appaiono ‘ancorati’ rispetto al passaggio ad un diverso impiego (cioè un numero importante di persone si dimette pur in assenza di alternative disponibili nel breve termine), in Italia più dell’incremento in termini assoluti, comunque rilevante, ciò che al momento maggiormente colpisce è la crescita graduale.
L’incremento del turnover riguarda il 73% delle aziende
Certo le dimissioni sono sempre esistite e i nostri dati sono ancora lontani dai livelli anglosassoni di turnover (tra gennaio 2021 e febbraio 2022, secondo il Bureau of Labor Statistics degli Stati Uniti, quasi 57 milioni di americani hanno lasciato volontariamente il lavoro). Tuttavia, l’incremento è innegabile ed è attestato dai dati ufficiali, ovvero le comunicazioni obbligatorie delle dimissioni dai rapporti di lavoro comunicate al Ministero del Lavoro attraverso i Centri per l’impiego. E confermato da uno studio sulle risorse umane dell’Osservatorio del Politecnico di Milano il quale rileva come nell'ultimo anno il tasso di turnover del personale sia aumentato per il 73% delle aziende, con il 45% degli occupati che dichiara di aver cambiato lavoro nell'ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a 18 mesi.
Le dimissioni sono oggi la seconda causa di cessazione
Che cosa dicono dunque i dati nazionali ministeriali? L’ultima nota trimestrale rilasciata sulle comunicazioni obbligatorie riporta che sono 1,66 milioni le dimissioni dal lavoro registrate nei primi nove mesi del 2022, in aumento del 22% rispetto allo stesso periodo del 2021 quando erano state 1,36 milioni. In termini numerici si tratta della seconda voce causale della cessazione dei rapporti di lavoro, dopo la scadenza naturale dei contratti a termine. E prima dei licenziamenti, risaliti del 47% rispetto all’anno precedente, anno in cui però, va ricordato, ne vigeva ancora il blocco. Dunque, una tendenza importante, e soprattutto in crescita costante, che merita le dovute considerazioni analitiche.
Superare lo stereotipo del ‘chiringuito’
Interpretazioni da ricercare andando oltre i luoghi comuni e le rappresentazioni ‘colorite’ fiorite a cavallo dei lockdown. Perché quello che pare di verificare è che il lavoratore italiano che oggi si dimette in genere non lo fa con l’intenzione di ‘levarsi la giacca’, dare un calcio al posto fisso e aprire un chiringuito su una spiaggia tropicale. Intanto una buona quantità di dimissioni riguarda anche contratti a tempo determinato. In secondo luogo, dei quasi 1,7 milioni di lavoratori che nei primi nove mesi dell'anno scorso hanno lasciato l'impiego, la stragrande maggioranza lo ha fatto per un altro lavoro: per scelta o per necessità, per un trattamento economico migliore, per guardare avanti rispetto alla propria occupazione e carriera o per far meglio conciliare le esigenze della famiglia. Ma il quadro è complesso e il già citato studio del Politecnico di Milano riporta che, anche nel nostro Paese, un numero comunque non trascurabile delle persone che hanno lasciato il proprio impiego lo ha fatto senza avere pronta un'altra offerta di lavoro.
Le ‘Great Resignation’ quale indicatore di dinamicità del quadro economico
L’aspetto su cui si riscontra ormai un’interpretazione univoca è che nel clima di ripresa economica post-Covid la crescita delle dimissioni sia un segnale di riattivazione della mobilità nel mercato del lavoro e del conseguente aumento delle transizioni dei lavoratori tra imprese. Quando l’offerta di lavoro aumenta è più probabile che i lavoratori trovino proposte migliori e siano quindi disposti a dimettersi dalla precedente impresa. L’incremento delle dimissioni rappresenta perciò un sintomo della ritrovata dinamicità del mercato occupazionale, e porta con sé sia un positivo inasprimento della concorrenza tra aziende per assumere le migliori risorse che un contestuale aumento delle condizioni vantaggiose offerte ai candidati.
Sempre meno le dimissioni sono solo una questione di salario
Quando poi si passa ad analizzare le motivazioni scatenanti delle dimissioni, secondo l’Osservatorio del Politecnico chi cambia lo fa principalmente per cercare benefici economici (46%), opportunità di carriera (35%), per una maggiore salute fisica o mentale (24%), per inseguire le proprie passioni personali (18%) o una maggiore flessibilità dell'orario di lavoro (18%). Ma ancora una volta il quadro si presenta articolato: se poniamo l’attenzione alle generazioni più giovani, si stima che negli ultimi dodici mesi abbiano cambiato professione il 76% dei Millennials (e il 28% della Generazione X) e solo in meno del 10% dei casi la retribuzione risulta essere stato un fattore decisivo nella scelta.
Si lascia un lavoro peggiore per uno che sentiamo migliore
Più in generale, cogliendo la congiuntura di buona offerta di posti di lavoro che sta caratterizzando il mondo post-pandemico, l’obiettivo prevalente sembra essere quello di cercare e trovare un impiego maggiormente in linea con le proprie ambizioni, le proprie priorità di vita, i propri valori. I momenti di crisi, del resto, sono appunto quelli in cui le persone si fanno domande sulla propria realizzazione, sulla propria felicità. Esattamente ciò che pare sia avvenuto con il periodo pandemico, a seguito del quale si sono accentuate tendenze, già in essere negli anni precedenti, rispetto alla ricerca di un equilibrio migliore tra vita professionale e privata e all’aspirazione al collocamento all’interno di contesti organizzativi più stimolanti e gratificanti per i profili più alti, più stabili e sicuri per quelli più bassi.
Non è solo un ‘rimbalzo’: la pandemia è stato il detonatore di tendenze di lungo termine
“È vero – scrivono Joseph Fuller e William Kerr sull’Harvard Business Review in riferimento al contesto americano - un numero record di lavoratori ha lasciato il lavoro nel 2021 e 2022; tuttavia, se si considera quel numero nel contesto dell'occupazione totale negli ultimi dodici anni si può vedere che ciò che stiamo vivendo non è solo una turbolenza a breve termine provocata dalla pandemia, ma piuttosto la continuazione di una tendenza a lungo termine”. Non si tratta cioè di un semplice rimbalzo, ma di un’emersione impetuosa che ora si sta stabilizzando: la crisi pandemica ha funto da detonatore di tendenze in realtà già in atto precedentemente. Le stesse riscontrate da una recente ricerca AreaStudi Legacoop-IPSOS, dalla quale emerge che sempre di più al proprio lavoro, oltre ovviamente al reddito, si chiede stabilità personale, crescita, realizzazione. Se si può si lascia un lavoro peggiore per uno migliore. Ma migliore a 360 gradi.
L’importanza della definizione del ‘Purpose’ del lavoratore
E proprio questo sembra l’aspetto su cui le aziende e i manager sono chiamati a concentrarsi. Secondo Orazio Stella, senior partner della società di selezione Loriga&Associati interpellato dal Sole 24 Ore: “se fino a pochi anni fa il lavoro era il mezzo attraverso il quale generare il reddito necessario a soddisfare i propri bisogni materiali, oggi sempre di più, si assiste ad una evoluzione psicologica” che investe non solamente le nuove generazioni o le professioni a più alto contenuto intellettuale o di maggiore specializzazione. Certo il lavoro deve ancora soddisfare le esigenze primarie del lavoratore, tramite la retribuzione, “ma restano poi da coprire quelle necessità di realizzazione personale che sono almeno altrettanto importanti e transitano anche attraverso il conferimento di uno scopo alla propria attività lavorativa”. Diventa dunque decisivo non solo il purpose aziendale, ma anche quello del lavoratore. Perché faccio quello che faccio? In che cosa sono bravo? Come posso migliorare?
Dalla Great Resignation alla ‘Great Aspiration’ e ‘Great Exploration’
Così come pare essere sempre più avvertita la necessità di un rapporto più equilibrato tra vita lavorativa ed esigenze familiari. Dopo essere state così profondamente sconvolte dalla pandemia e costrette sotto pressione a fare cambiamenti bruschi e significativi, molte persone hanno rivalutato le loro priorità e ora stanno apportando cambiamenti alle loro esistenze: dove lavorare e per chi, dove vivere, se tornare in ufficio o continuare a lavorare da remoto, come soddisfare le esigenze dei bambini e dei genitori anziani. Queste e altre domande sono in fase di esame e sono alla ricerca di nuove risposte: i lavoratori aspirano a rendere proattiva la vita che vogliono. Non a caso alcuni opinioni leader del comparto HR propongono di passare dalla definizione di ‘Great Resignation’ a ‘Great Aspiration’, se si guarda la questione dall’ottica dei lavoratori, o ‘Great Exploration’ da quello delle aziende.
La gratificazione dei dipendenti è sempre più un fattore di competitività
Quello che è certo è che in un contesto dinamico del mercato del lavoro, con il rischio di privarsi delle migliori professionalità, per le aziende diventa sempre più urgente definire politiche strategiche capaci di rispondere ai nuovi bisogni emergenti. Introducendo o rafforzando opportunità che, oltre alla gratificazione salariale, garantiscano una maggiore flessibilità oraria e operativa (smart working) così come progetti di investimento sul welfare aziendale e programmi chiari di sviluppo delle carriere e delle competenze. Assume pertanto una crescente importanza dotarsi di strumenti sempre più articolati per aumentare la soddisfazione e il benessere dei propri dipendenti, non solo per corrispondere a più alti standard in termini di responsabilità sociale di impresa, ma anche, in ultima analisi, per essere maggiormente competitivi sul mercato.